Nelle tenebre profonde del sotterraneo, agitate da vorticosi mulinelli di vento, vidi gli occhi di un gatto morente, un gatto maschio tigrato che avevo tenuto da quando ero studente fino al mio matrimonio e fino al periodo in cui mia moglie stava per rimanere incinta: ricordavo i suoi occhi dallo sfortunato giorno in cui lo vidi, investito da una auto, con qualcosa simile a una mano rossa che gli spuntava tra le zampe. Gli occhi di un vecchio gatto, perfettamente quieti e limpidi, con le iridi gialle e luminose come piccoli crisantemi. Occhi tranquillamente inespressivi - almeno visti dall'esterno - nel profondo dei quali era contenuta un'immensa sofferenza ogni volta che i centri sensori del suo piccolo cervello erano trafitti da una scarica elettrica di dolore. Gli occhi di un gatto che considerava la propria agonia come qualcosa di assolutamente privato e, in quanto tale, inesistente per gli altri. Io avevo rifiutato di immaginare l'esistenza di persone i cui occhi nascondevano un simile inferno personale e avevano quella stessa espressione.