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Quello era l'esatto contrario dell'arte, pensava Faulques. L'armonia di linee e di forme non aveva altro oggetto che arrivare alle chiavi intime del problema. Niente a che vedere con l'estetica, ne tanto meno con l'etica che altri fotografi usavano - o dicevano di usare - come filtro dei loro obiettivi e del loro lavoro. Per lui tutto si era ridotto a muoversi nell'affascinante reticolo del problema della vita e i suoi danni collaterali. Le sue fotografie erano come gli scacchi: dove altri vedevano lotta, dolore, bellezza o armonia, Faulques osservava solo combinazioni di enigmi. Lo stesso valeva per il grande dipinto a cui lavorava adesso. Quanto cercava di risolvere su quella parete circolare era agli antipodi da cio che la maggior parte delle persone chiamava arte. O forse accadeva che, una volta lasciato dietro di se un certo punto ambiguo e senza ritorno dove, ormai prive di passione, languivano etica ed estetica, l'arte si trasformava - e forse le parole adeguate erano di nuovo - in una formula fredda e in qualche modo efficace. Uno strumento impassibile per contemplare la vita.